LA SOLENNE COMMEMORAZIONE NELLA CATTEDRALE DI  SALERNO DEL FANTE DISPERSO IN ALBANIA
Matteo Pecoraro, dopo 63 anni una tomba su cui pregare

ERMINIA PELLECCHIA
Il fante Matteo è ritornato a casa. Dopo sessantatre anni. In una cassetta di legno, spoglia. Se non fosse per quel tricolore che l’avvolge come una ghirlanda di fiori. A far corona i gonfaloni delle associazioni delle famiglie dei caduti e dei dispersi in guerra, dei combattenti e reduci e del Comune di Salerno. Il picchetto di onore dell’esercito – lo comanda il maggiore Giuseppe Gambaro – è lì ad accoglierlo, nella Cattedrale che ha fatto da scenario alla sua breve esistenza.
Da quelle vecchie mura Matteo Pecoraro si è allontanato appena venticinquenne, «partito per una guerra inutile», commenta Umberto Carrano citando il titolo del libro dello storico inglese Eric Morrison che parla proprio di quella tragica campagna di Grecia. Una vero e proprio massacro per le truppe italiane, tra le vittime anche il soldatino salernitano, un ragazzone semplice, allegro, «attaccatissimo a mammà e papà». Non era un eroe Matteo, lo è diventato semplicemente perchè il destino ha decretato che morisse in battaglia, nella sperduta contrada di Bregu Psarit.
In chiesa  i familiari, qualche amico ormai canuto, fra le autorità intervenute il sindaco Mario De Biase ed il suo vice Carmine Mastalia, le Associazioni combattentistiche. Una tromba intona il Silenzio, sulle guance dei presenti scivola una lacrima. Don Nicolino, il nipote sacerdote che ha miracolosamente rinvenuto le spoglie, celebra la messa. È l’omelia. Don Nicolino ricorda il dolore della famiglia, «nonna aveva un presentimento, non voleva che andasse in guerra», ricorda l’odissea di quel viaggio della speranza che l’ha condotto nel 1991 in Albania, l’incontro con la contadina ultraottantenne che gli ha rivelato il luogo della sepoltura, l’ultima fatica affrontata, l’esame del dna che alla fine ha eliminato tutti i dubbi sull’identità del corpo ritrovato. Poi legge una lettera, la data è 14 marzo 41, due mesi dopo la morte di Matteo. L’ha scritta Ciriaco Bello, «più che un amico, un fratello». Sempre insieme, anche sul fronte. Insieme anche nella morte. Disperso Ciriaco. «Noi ora abbiamo una tomba su cui pregare, i suoi cari no», piange don Nicolino e fa una promessa: «continuerò le mie ricerche per dare il giusto riposo ai tanti nostri militi dispersi tra la Grecia e l’Albania».