Il diario di Matteo

Un fante della sua Compagnia scrive

Matteo: uno di quegli uomini che s’incontrano raramente nella vita, e che una volta incontrati non si dimenticano più: ti resta in cuore una sorta di spirituale riconoscenza, come se dall’averli conosciuti ne fosse venuto un bene alla tua anima. Di Matteo ti colpisce anzitutto il volto, un volto magro, illuminato da due grandi occhi splendenti; quegli occhi spandono su tutto il volto come una luce ascetica. Ci sono alcuni privilegiati il cui viso prende lume da un’idea interiore, e ne è tutto trasfigurato: Matteo è uno di questi.

Fin dal giorno in cui ero arrivato in linea, quel volto mi aveva immediatamente colpito, come se fosse diverso da tutti gli altri; nell’antro del comando dove s’era tenuto il rapporto, la fiamma guizzando più alta l’aveva portato in luce per un attimo, rivelando in quei lineamenti una tensione spirituale, una passione scolpita fin sulla carne…

Ci eravamo presentati, avevamo parlato un poco insieme, e subito quel freddo se n’era andato; c’era nelle sue parole tanto entusiasmo e tanta fede, e così evidentemente sinceri l’uno e l’altra, che non c’era posto per dubbi o riserve:  ed io mi ero avvicinato a lui istintivamente, conquistato da quel calore, che era come un fiato vivificatore per lo spirito.

Il diario che il soldato Matteo non sapeva di avere scritto

“La guerra è una cosa dura e impegnativa, tutta diversa da come si è immaginata: tu ti trovi a cozzare continuamente contro questo suo aspetto arcigno e disadorno, fatto di prurito, di pidocchi, di precipitosi risvegli, di stanchezza dei muscoli, di fango e miseria: il rancio è quello che è, vedi gente morire stupidamente, si va all’assalto senza capir bene a cosa serva, perchè non si vede che questo pezzettino di fronte che ci sta davanti, e si ha l’impressione di andare avanti col paraocchi, come i cavalli.

Così la gente muore e non si capisce perchè, e ti viene voglia di pensare che sia solo per movimentare i rapporti da spedire al Corpo d’Armata: sai che non è vero, ma l’angustia della visuale che ti è concessa ti induce in questi pensieri tuo malgrado.

E capita, allora, di trovarsi ad un certo punto quasi smarriti e delusi: e allora trovare un uomo come Matteo è come ritrovare improvvisamente un te stesso che amavi e che per un attimo avevi creduto perduto.

Il giorno declina ancora una volta: neve e vento, vento e neve, senza sosta; qualcosa si è fatto, per stare un po’ più da cristiani e non rischiar di morire di freddo nel sonno: si sono scavate delle buche nella neve, al riparo delle rocce, ci si è passato attraverso un bastone e su quello si è fissato in qualche modo il telo; un po’ di tana ora ce l’hai, e non sei più un figlio di nessuno, come prima. Ma lassù, sulle pendici del Mali Trebescines, hanno dovuto scavare delle altre buche, e metterci dentro i compagni morti coi quali ancora ieri parlavi di tante cose e ti rispondevano: ora sono sotto la neve, così lontani da casa, sperduti in questo angolo del mondo: e non li incontrerai mai più. Fa malinconia pensare di morire tanto lontano da casa, dove nessuno dei tuoi potrà mai venirti a trovare e dire un requiem: è come se si morisse proprio del tutto, e di te non restasse più niente.

Così è venuta la notte. Ancora una notte gelida, ostile, che aggiunge, all’insidia delle pallottole  nemiche, quella del ghiaccio: tu sei disteso nel tuo buco, oppure ti muovi su e giù, avvolto nella coperta da campo e nella mantellina, così indurite dal freddo che sembrano tessute col vetro. Gli occhi bruciano dal sonno ma non puoi dormire, per via del freddo, e dei continui allarmi, e della paura che vengano nel buio e ci sorprendano; ogni tanto si accende qua e là un lampo improvviso, poi viene il fragore del colpo, e allora le nostre armi rispondono: poi viene una pausa lunga in cui tutto è silenzio, ed è ancora peggio perchè ti piomba addosso tutta la stanchezza, e ti accorgi di essere peggio di uno straccio. Ogni tanto provi a piegare le dita delle mani, è una gran fatica ma si muovono: poi pensi che è ora di tornare a provare, perchè forse è passato un minuto e forse anche un’ora, non si sa, e nel frattempo il gelo può averle uccise: no, si muovono ancora.

Sei là senza un pensiero, come un sasso o una pianta, se qualcuno ti parlasse non riusciresti a capire quello che dice: se inciampi su un uomo disteso a terra, quello fa un grugnito e non dice parola, come se non avesse sentito: eppure tu vedi che non dorme, perché ha gli occhi aperti, e non può risponderti mai più; in altri tempi avrebbe bestemmiato e detto insolenze per un’ora, facendo finta di non accorgersi che sei un superiore; ma ora non sono più quei tempi.

Questa sera, eccezionalmente, fa sempre tanto freddo ma non nevica più: anzi, guardando in alto, ti accorgi di una piccola cosa che brilla, ed è una stella, la prima stella che vedi nel cielo d’Albania: forse domani ci sarà il sole. Guardi in su, appoggiato ad una roccia, forse per un minuto, forse per un’ora: vicino a quella prima luce se ne accendono altre e altre ancora, come sorte dal nulla, fino a prendere tutto il cielo: formano un disegno strano e indecifrabile, un disegno che non saresti mai capace di fare su una carta, eppure ti è familiare: è il cielo di casa tua, quello che sei stato a guardare qualche volta appoggiato al muro, nel tuo giardino, in estate ; ti pare ancora di rivedere il rosso della sera spegnersi poco a poco sul mare, e lasciare il posto a quel color grigio un po’ caldo che ha la cenere della bragia consumata: poi l’ombra esce lentamente dal fondo del mare  e dalla spiaggia e viene su, e copre quel po’ di luce che il giorno ha lasciato sulle rughe della pietra, fin che tutto diventa buio eguale: allora rimangono solo le stelle, con quel loro disegno indecifrabile eppur familiare, lo stesso che si vede da quassù. Adesso pare quasi di essere un po’ più vicini a casa, e un po’ meno soli…

E’ tutto allagato per le piogge continue di questi giorni: fango e pozzanghere dappertutto. I fanti sono sdraiati in mezzo al fango, uno qua e uno là, senza ordine; molti dormono così, distesi nelle pozzanghere, col sacco sotto la testa, e non si sono nemmeno curati di cercarsi un posto un po’ più asciutto: per la gran stanchezza vedevi della gente fare due passi e poi buttarsi giù di schianto, e altri buttarsi nel posto dov’erano, lasciando andare il fucile in mezzo alla fanghiglia: se uno li chiamava non sentivano, o rispondevano con un grugnito come le bestie, senza alzare la testa.  Su questa povera gente sdraiata nel fango, insensibile a tutto, ormai arrivata al fondo di ogni miseria, la pioggia cade da un’infinità di ore, senza misericordia, e il vento gelido tira a gran folate rabbiose; davvero uno pensa che perfino Dio ci ha abbandonato, e non gliene importa più niente di noi.

Tutto è come in una nebbia: si camminava in fondo valle, poi a mezza costa, poi ancora in fondo valle, e i Greci pareva che ci seguissero sempre, come le nostre ombre: ogni tanto si facevano vivi coi loro mortai, e i colpi andavano lontano, senza far niente, come se volessero soltanto dirci: ”Siamo qua, non potete riposarvi nemmeno per un attimo!”.

Si era partiti alla mattina, non si sapeva nemmeno per dove, e del resto non importava, perché tutti i posti sono uguali: poi si era sentito parlare di Chaf Chichocut, e non si sapeva se era una collina o il nome di una località: ora i Greci dovevano esser vicini perché il Maggiore aveva dato ordine di andare su in ordine sparso: ogni compagnia era poco più di un plotone, e l’intero battaglione aveva sì e no la forza di una compagnia di quando si era sbarcati a Valona. Si era arrivati poi a Chaf Chichocut, un valico che dominava tutta la valle;  case intorno non ce n’erano.

Poi, zaino in spalla ancora, e via verso un paese che si chiama Mazani: pioveva sempre, si guazzava coi piedi nel fango, gli uomini non sembravano più degli esseri umani, ma peggio che bestie: le divise erano tutte una crosta di fango sola, cadevano a brandelli da tutte le parti, molti avevano le ginocchia fuori, o il sedere, e tu gli vedevi la carne illividita dal freddo; le scarpe rotte fracassate, chi aveva ancora una fascia e chi nessuna, le mantelline pesavano un quintale per tutta l’acqua bevuta in tanti giorni; sporchi e laceri…

Avevano fatto dei muretti con la neve e coi sassi, una specie di trincea per starci dietro e mettere in posizione le armi : poi si erano scavate delle buche per ripararsi dal vento, mettendoci il telo sopra e fissandolo col bastone alpino e i picchetti: ma anche così era un freddo spaventoso, e sentivi il vento urlare come un’anima dannata, la neve continuava a cadere fitta e grossa; così, ad un certo momento della notte, i muretti si erano rovesciati per via del vento impetuoso, la neve accumulata sui teli aveva finito per sfondare tutto col suo peso, cadendoti addosso e seppellendoti: s’era usciti a fatica dalle tane e si era rimasti là allo scoperto, ad aspettare la morte; e la morte era venuta infatti per alcuni, quattro fanti che al mattino, quando è cominciata un po’ di luce, abbiamo visti distesi per terra, e abbiamo cercato di svegliarli credendo che dormissero: erano stecchiti, tutti rattrappiti, morti di freddo, il viso bianco come di cera. Li abbiamo dovuti seppellire là, dentro la neve, con una croce fatta con due assi legate insieme e il nome.

Non si può immaginare un freddo simile, e una bufera come questa: è una disperazione, e c’è da pensare che da quassù nessuno tornerà vivo anche se i Greci non si faranno vedere. Gli stessi ufficiali li vedi girare muti e preoccupati, c’è poco da dire, sono di carne anche loro, come noi, e soffrono come noi…

Almeno ci fosse molto da mangiare e da bere! e invece cinghia. A Progonat la roba c’è, ma non si può farla arrivare, per via di quella bufera nella quale gli uomini non stanno nemmeno in piedi: i cucinieri hanno provato ad andar giù, ma chi li ha visti tornare? In un baleno la neve cancella tutte le orme, e le tracce dei tuoi passi stessi : poi trovi tutto bianco eguale, la neve che cade è come un sipario calato davanti agli occhi, la strada non si trova più…

E intanto noi siamo qui, in attesa dei Greci che certo sono qui vicini, e munizioni ne abbiamo pochissime, quelle che abbiamo potuto portarci su a spalla: del resto, se ci attaccassero oggi, le munizioni non servirebbero a niente: il freddo è così forte, che se tocchi la canna del fucile senza il guanto, la pelle ti resta attaccata al metallo, ed è come se tu ti fossi bruciato toccando un ferro rovente: siamo talmente stremati di forze e assiderati, che nessuno forse riuscirebbe a piegare il dito e far forza sul grilletto, per far partire il colpo.

Questa montagna sarà la nostra tomba: e in tutti è lo stesso pensiero…

Non si vede niente, per la nebbia: ed ecco improvvisamente venir fuori dalla nebbia incontro a noi il tenente, che appena si regge in piedi: dice che i Greci attaccano da stamane, e tengono sotto il fuoco dei mortai la mulattiera, e sono in posizioni che dominano tutti i passaggi: bisognerà andar su stanotte, col buio, e sperare che vada bene. Mentre il tenente parla, ecco una folata di vento impetuoso che straccia la nebbia, e si vede su fino alla cima, tutto il pezzo di strada che è ancora da fare; ma la cima è tutta nera per gli scoppi, e tutta coronata delle nuvolette bigie dei colpi in arrivo: e tra la cima e noi c’è una lunga fila di uomini che scendono, a gruppi di due o tre, camminando adagio, e non si sa chi possano essere. Allora un grido dell’ufficiale:”Giù le cassette, e voi, mettetevi in ordine sparso dietro ai mucchi di neve, e levate il coperchio ad una cassetta di caricatori, che vediamo cosa succede…” Gli uomini scompaiono in un avallamento, ricompaiono più bassi, tornano a scomparire: finalmente sono abbastanza vicini e si può capire che sono nostri: è una fila di feriti, che si sostengono l’un l’altro e cercano di venir giù. Ma il punto in cui passano, ora, deve essere allo scoperto, perché attorno a loro sbocciano le nuvolette bigie dei mortai, la fila si rompe, gli uomini cercano di ripararsi per offrire meno bersaglio e si trascinano faticosamente con le loro membra ferite fuor della pista: e il mortaio rabbioso li cerca, uno per uno, i colpi sempre più aggiustati, una caccia spietata a questa povera carne già straziata che non può difendersi: li vedi tentar di alzarsi, ricadere, trascinarsi ancora sul ventre in un ultimo sforzo, poi rimanere immobili con le braccia distese, il viso contro la neve.

Guardi quello spettacolo, immobile,  non c’è  niente da fare; ma una fiamma ti sale al viso, hai il cuore pesante come una pietra, un senso di nausea allo stomaco, il sangue che batte alle tempie come se facesse forza per far scoppiare le vene; tutte le sofferenze, e le amarezze, e le fatiche, e le privazioni, il ricordo dei compagni fracassati dai mortai o falciati dalla mitraglia, le urla dei colpiti e i lamenti dei feriti abbandonati, e poi la fame e il gelo e i congelamenti e le mutilazioni, e le grida disperate e il pianto desolato e l’inferno dell’acqua e del fango e della tormenta, tutto ciò che dentro di te si era accumulato e non aveva avuto sfogo, tutto si muove e tumultua nel cuore e nel cervello, cresce e sale come un’onda, come una marea : e insieme a questo sale un gusto amaro di fiele, una rabbia violenta e terribile per cui bisogna trovare uno sfogo, se non si vuole diventar pazzi e mettersi ad abbaiare come i cani. Ma ecco delle  voci che gridano:” Vengono”: sono i Greci, e guardando il fianco del monte si vede una fila lontana che si avvicina, i Greci che sono riusciti a passare più in basso e ora tentano di chiudere un cerchio attorno ai nostri che occupano la cima.

Alto sopra il fiume DESHNICES appare il dorso del Mali Trebescines:

tu lo guardi, già fatto cupo nelle ombre della sera, e ti trovi nel cuore quasi un rimpianto, una nostalgia; ti apparve arcigno e pauroso, quando lo guardasti una sera come questa per la prima volta, e uno ti diceva: ”Vedi? lassù è la linea”, ed era come se dicesse: ”Lassù è la morte”. Allora non sapevi ancora cosa fosse la guerra e cosa si provasse a vedere un uomo morire, e a chiamare invano un uomo che pochi minuti prima ti parlava e invece non ti avrebbe risposto mai più; non sapevi come fosse lo scoppio del mortaio in arrivo, e la raffica della mitragliatrice, e lo spasimo di trovarsi faccia a faccia col nemico, e il pianto del ferito; tutte queste cose e le mille altre che sono tutte insieme la guerra, te le ha insegnate quella montagna arida e brulla, il cui nome sarà legato per sempre, nella tua memoria, a quelle ore senza paragone.

Tu hai visto di lassù un mondo nuovo, dentro e fuori di te, mentre guardavi il lampeggiare delle nostre batterie schierate in fondo alla valle o sui dorsi dell’altro versante, mentre ascoltavi l’ansare delle granate che scalavano il cielo poco sopra la tua testa per andare ad esplodere sulle linee nemiche, mentre contavi i minuti e poi i secondi che mancavano al balzo in avanti, mentre scrutavi il volto degli uomini, mentre facevi  fuoco con la mitragliatrice sulla montagna senza pace; ed ora essa è là, davanti ai tuoi occhi, silenziosa e mite perchè la guerra l’ha sorpassata e si è spostata in avanti, muta e desolata come una regina decaduta. Appena qualche giorno fa quelli che passavano su questa strada guardavano su con timoroso rispetto, dicevano: ”Il monte Trebescines…” e c’era nella loro voce l’accento di quando si dice una cosa misteriosa e terribile; ora centinaia e migliaia passano veloci, è un brutto dorso qualunque, impastato di fango e di roccia come altri cento, nessuno se ne cura; nessuno, all’infuori di quelli che hanno fatto la guerra fra quelle rocce e quel fango e quella neve di cui non resta quasi più traccia, e che hanno lasciato lassù i compagni caduti, e un po’ del loro cuore”.