Il Natale di Matteo sul fronte…
Era la vigilia di Natale. I greci, tra la neve che aveva ripreso a cadere, tentarono un breve attacco, subito respinto. Finalmente nel pomeriggio era ritornata la calma, ma alla stanchezza fisica ora si accompagnava la malinconia che precede ogni festa. Avrei voluto appartarmi dentro il bosco e starmene solo a ricordare. In attesa della posta andai a salutare Erminio che, come sempre, stava seduto sul tronco a pestare il caffè dentro la gavetta sfondata.
Andrea raccontò di aver sentito da un conducente che, in occasione del Natale, ci avrebbero distribuito dei pacchi: c’era da sperare in questi perché il rancio sarebbe stato più magro del solito. Quando, infine, si accostò al fuoco il postino della compagnia, inzaccherato fino ai capelli, ci dichiarò sfiduciato che il suo viaggio nelle retrovie era stato inutile perché la posta non era arrivata.
Desideravo una lettera dei miei genitori, vedere ancora quella busta rettangolare con il mio indirizzo, e quel foglio, e parole da leggere: che mi dicessero magari della vita della mia famiglia, della salute dei miei genitori anziani, di mia sorella Giannina…
Nevicava sempre, e stemmo, quella sera, per lunghe ore rintanati sotto la tenda, senza parlare: a farci tormentare dai ricordi e dai pidocchi.
All’alba, invece delle campane, sentimmo sparare il grosso calibro delle retrovie, ma subito, tra la neve che continuava a cadere, ritornò una grande pace. Andrea ed Erminio andarono a portare un plico verso il comando di divisione; io, assieme a Vincenzo, andai a messa.
Un cappellano celebrava nel bosco vicino, tra rocce defilate. Eravamo una trentina del mio reggimento, dentro le nostre corte mantelline e piantati nella neve fino alle ginocchia. Né preghiere, nè canti. Vincenzo, che serviva, diceva ogni tanto amen.
Pensavo a come poteva essere la Messa di Natale nella Cattedrale di Salerno, con i guizzi delle candele sui mosaici dorati, l’organo, i cori che cantavano sotto le grandi cupole. E tutta la gente felice farsi poi gli auguri sulla piazza e prendere la cioccolata nei caffè.
Pensavo a come poteva essere il Natale nel mio rione alla “Scesa delle Croci”, con i gruppi di persone che si avviavano lentamente verso la Chiesa, e le scarpe nuove che crocchiavano sul lastricato della piazza, e le ragazze che si avviavano fasciate di vestiti nuovi in Chiesa per cantare. Tutti i cori, poi, dentro la chiesa diventavano uno solo e le navate rimbombavano, e non sentivi più le campane. E il vecchio parroco che certamente avrebbe parlato di noi lontani, e di pace per gli uomini di buona volontà. A casa la legna avrebbe bruciato allegra dentro il camino, tenuto acceso dal mio vecchio papà, per riscaldare gli infreddoliti dalla messa dell’alba.
Fissavo un uccelletto dentro un cespuglio: aveva le penne arruffate e sembrava uno di noi. Ogni tanto si scuoteva dalla neve e cambiava ramo come noi il piede per posarci. Cantò lui, con un lieve tintinnio d’argento. Vincenzo disse: — Andiamo, il prete ha finito.
Invece di ritornare al nostro ricovero, scendemmo per una mulattiera: nei giorni dei combattimenti un mulo era precipitato e noi si andava a prendere dei pezzi per fare il Natale. Giaceva in basso tra le rocce, rigido, con i grandi occhi spalancati sul niente e i labbri schiusi sopra i denti gialli e forti. Il fango e la neve facevano coperta alla sua magrezza. Lo guardavo con pena e non avrei voluto, ma Vincenzo fu rapido a tagliare un pezzo di coscia congelata.
Ritornammo alla nostra squadra portando ognuno un pezzo di carne; avremmo festeggiato anche noi il Natale, arricchendo la nostra gavetta di cibo secco e gallette ammuffite.